Era una normale sera d’estate. Il sole aveva dipinto d’oro rosa il cielo, nel suo tramontare; il caldo era secco, non afoso, e aleggiava nell’aria quella spensieratezza tipica che la stagione portava. Nulla lasciava presagire un qualcosa di brutto; la tranquillità era la qualità di ciò che si poteva respirare in quel momento. Lei, che non possedeva un nome, che semplicemente guardava il cielo seduta su quella panchina, era assorta in qualche sua solita riflessione. Nel torpore dei suoi pensieri, un’ombra le scurava la vista; mise un attimo a rendersi conto che il calore di quel momento era venuto meno, e qualcuno le stava parlando. Così, volgendo lo sguardo in alto, vide Lui, che non possedeva un nome; parlava, ma Lei non sentiva. Così, con voce di chi è rimasta assorta troppo tempo dentro se stessa, gli chiese: «Scusa, puoi ripetere? Ero… ero magnificata da questo tramonto e non stavo ascoltando. Ciao!» – esclamò lei, felicitata – «Come stai?» Lui – senza sapere che viveva nella memoria di Lei – rispose sorridendo: «Ciao, sì, nulla. Ti avevo notata qui e volevo salutarti. Sto bene, sto bene; tu?» Mise ancora un attimo a rispondergli. Stava contemplando la casualità di quell’incontro, l’ironia della vita e quella sfumatura malinconica che aveva dipinto una qualche sorta d’espressione temporanea sul suo viso. Uscita da questa breve realizzazione, gli rispose: «Semplicemente sto. Non posso stare diversamente. C’è qualcosa che pesa dentro di me, e cerco di distrarmi con la bellezza della natura. Così questo tramonto diventa per me elemento di tranquillità. Ma forse anche la gioia di un tramonto sincero non basta a rischiarare cosa alberga dentro di me. Ti capita mai di sentirti così? Così piccolo e schiacciato da un qualcosa che vive e muore sempre dentro di te?» Lui si assentò un attimo col pensiero, per metabolizzare meglio le parole di Lei, per capire cosa realmente intendesse. Cercava di capire se gli fosse mai capitata quella sensazione. Uscito da una breve perscrutazione di sé, le rispose: «Non sei mai banale tu, vero? Hai sempre un modo tutto tuo per dire le cose…» – rideva, non di Lei, ma di quel suo parlare così atipico – «Comunque no, non penso mi sia mai capitato, sai? Qual è questo peso che porti dentro, comunque?» Lei, ricambiando quel sorriso, lo guardava intensamente, con la convinzione che quello che avesse dentro potesse essere trasmesso con la profondità del suo sguardo – ma, di rado, uno sguardo può penetrare così tanto dentro l’anima da riuscire a toglierti dal mondo, per elevarti in una dimensione fuori dallo spazio e dal tempo. Così, nemmeno per loro, quel suo sguardo riuscì a trascendere la natura dei confini umani. Sospirando, dal suo interno sentiva già scombussolarsi – una sensazione strana – che la rendeva inquieta, ma non per forza in modo negativo. Così, prendendo un ampio respiro prima di parlare, gli disse: «Sei tu, quel qualcosa che pesa dentro di me. Sei solo tu… non in senso negativo, ma sei proprio come questo tramonto per me. Rischiari le parti migliori di me, e lo fai semplicemente essendo te stesso. È questa tua spontaneità che mi magnifica, come fa questo momento, o come lo faceva prima che arrivassi. Ma so come tu la pensi. Per questo taccio, per questo mi pesa. È quel forse di un domani, che non può divenire, che mi schiaccia a terra. Sai che non posso mentire, per questo lo dico. Ma non voglio aprire un confronto, perché non può esserci.» Lo sguardo di Lui si fece più serio, più compassionevole. Era dispiaciuto nel sentire quelle parole, non voleva essere quel tipo di sensazione. Sospirando, le replicò con voce comprensiva e pacata – come qualcuno che voleva abbracciare l’altrui fragilità con le proprie parole: «Ho sempre avuto questo timore. Non ho mai voluto la tua sofferenza. Volevo solo sorridessi. Sei così vera quando lo fai, e di cose vere nel mondo ce ne sono così poche. Volevo continuassi ad essere una di queste. Per questo ti ho sempre mostrato chi sono veramente, perché so che non giudichi, so che sei sempre sincera, e ho sempre voluto ricambiarti questa cosa. Ma nel mio cuore, per te, purtroppo lo sai, non c’è spazio per qualcosa di sentimentale. Non volermene male, semplicemente non è qualcosa che è nato.» Lei lo guardava ancora, senza astio, senza rancore. Non era capace di portarne, non era capace di colpevolizzare gli altri, come la maggior parte faceva, quando semplicemente le cose non funzionavano. Il sentimento non è qualcosa di così diffuso, quando lo si vive con autenticità. Questo lo sapeva. Ma lo guardava con gli occhi della rarità che, per Lei, Lui era. Aveva quel desiderio, quella fame che di rado il destino fa dipingere negli occhi di qualche anima. Lei sorrideva. Sorrideva sempre, e con un lieve accenno di sorriso. Con quella voce tremolante ma consapevole, gli rispose: «Lo so. Lo so bene. Dentro di me c’è uno spazio infinito di futuri, di passati e di presenti. In uno di questi spazi ci sei tu. Ma non mi illudo, non avvilisco né annichilisco. Sono consapevole di quello che il domani porterà, e non vedo luci nel futuro con te. Semplicemente ti guardo e ti vedo. E, se guardo dentro di me, vedo lo sconforto che si eleva dalla profondità della mia anima, nel non poter condividere con te tutto ciò che è felicità per me. Riesco sempre a gestire i sentimenti che vivono dentro di me. Per questo li so esprimere, per questo te li confesso, perché non mi crea tristezza sentire un tuo “no”. Ma non posso mentire a me stessa, così come non posso mentire a te. L’hai detto anche tu: la mia sincerità è praticamente assoluta. E voglio tu sappia l’effetto che mi fai, qui, in questo momento…» Lui, guardando ancora Lei, nei suoi occhi, si tingeva di tristezza, per la ferita che aveva causato involontariamente. Non voleva creare sofferenza, ma non poteva certo corrompere se stesso per compiacere gli altri. Così, sempre in modo cortese, senza voler sminuire ciò che Lei provava, le rispose: «Mi dispiace tanto non riuscire ad avere uno spazio dentro di me, per poterti abbracciare. Se ci fossero state premesse diverse, forse qualcosa sarebbe potuto nascere, ma così non è. Mi piace quello che vedo dentro di te, ma è solo una gioia diversa. Al di là di tutto, sono “contento” che non provi rancori e non ti struggi se non ricambio la natura del sentimento che provi per me. Apprezzo tante cose di te, e questa penso sia un’altra di quelle che apprezzerò. Perché non sento disagio in questo momento, sento che hai uno spazio sicuro dove puoi esprimere quello che senti. Apprezzo molto che riesci a parlarne, in modo così trasparente e sincero. Vorrei poterti dare quello che ti meriti, quello che vuoi. Un giorno vedrai che arriverà quello che stai cercando.» Lei sorrise ancora; in tono pseudo critico gli rispose, senza troppi artifici: «Mi sento sempre a mio agio con te, ti parlo sempre di tutto, senza problemi. Ma non penso che nella vita le persone abbiano ciò che meritano, semplicemente hanno ciò che gli capita, e tu sei un qualcosa che non mi è capitato, come volevo. Ma non preoccuparti, soffro, come ti ho detto, ma non è una sofferenza che distrugge, è solo la mia solita sofferenza.» Lui, vedendo quegli occhi tristi, abbandonati a se stessi, le rispose: «Perché dici così? Mi spiace sentire che soffri, che sei così cinica, in qualche modo, da non poter pensare di meritare amore… spero solo di non essere io una parte importante del tuo soffrire. Non arrenderti a queste convinzioni, sei libera di essere felice, non sempre e solo di soffrire, non credi?» Lei rispose con la sua solita tranquillità e lucidità: «È semplicemente quello che sono, no? Un’anima che soffre. Ho sempre sofferto, non preoccuparti. La sofferenza è quella coperta che, la notte, mi abbraccia. Non cerco conforto, ma comprensione. So che in te la posso trovare; anche per questo ti racconto cosa porto dentro. Non sei tu la causa del mio soffrire, è questa vita che è così strana, così magnifica e terribile. Mi piace viverla, con tutto ciò che comporta. Semplicemente sto qui, e scruto tutto quello che ho perso e perderò. È una sensazione che ha dell’indescrivibile, quando gli altri non vedono il peso delle cose che qualcuno porta con sé. Vedono tutti la superficie… ma chi vede davvero dentro qualcuno? Io ti vedo dentro, per questo nutro un sentimento per te. E anche se tu riesci a vedere chi sono, non lo nutri. Perché dovrei portarti astio per questo? Semplicemente, non sempre le cose sono fatte per durare. Le cose belle non lo sono mai. E tu sei bello, per me, in un modo che non puoi comprendere.» Lui rimase in silenzio, guardandola. Non sapeva cosa dire, cosa fare. La percepiva – e questo, a entrambi, bastava. Così, abbracciandosi, si guardarono un’ultima volta negli occhi, prima di salutarsi. E così era già sera. Senza accorgersi di quanto il tempo passasse, quando la natura dei discorsi tocca corde così profonde, che risuonano nel pensiero e nell’animo. Infine s’abbandonarono: Lui proseguì nella frenesia della sua vita, dimenticando in pochi minuti quella conversazione. Lei rimase seduta ancora su quella panchina, con lo sguardo che ora mirava stelle lontane brillare, come i suoi occhi lucidi. Ma per Lei, quella conversazione permeò e le rimase dentro ancora per ore, e poi giorni – perché le confessioni del cuore hanno la caratteristica di durare più in chi le esprime che in chi le riceve. E, per Lei, quello era tutto ciò che poteva fare: il confessare dal profondo. Non poteva ancora alzarsi, perché, di tante cose che poteva fare, abbandonarsi ad altri pensieri e riflessioni era tutto ciò che voleva. E così faceva.